Corte Costituzionale: nessun obbligo di trasmissione degli atti al P.M. in caso di aggravante non contestata

Corte Costituzionale: nessun obbligo di trasmissione degli atti al pubblico ministero in caso di circostanza aggravante non contestata

16-11-2022

La Corte Costituzionale, con la sentenza n. 230 del 15 novembre 2022, ha dichiarato non fondata la questione di legittimità costituzionale sollevata con riferimento all'art. 521, comma 2, del codice di procedura penale, nella parte in cui non prevede che il giudice disponga con ordinanza la trasmissione degli atti al pubblico ministero quando accerta che risulta una circostanza aggravante non oggetto di contestazione.

Il Giuidce delle Leggi ricorda che una circostanza aggravante non contestata all'imputato, e pertanto non oggetto di contraddittorio tra accusa e difesa, deve essere considerata tamquam non esset per il giudice e che ciò vale anche, e in special modo, per la recidiva, che pure è fondata sulla previa commissione di delitti accertati con sentenze definitive risultanti per tabulas dai certificati del casellario giudiziale, giacché la sua applicazione non è mai obbligatoria: il che comporta il preciso onere per il pubblico ministero, che intenda contestarla, di dimostrare, nel contraddittorio con l'imputato, che nel caso concreto i reati da lui precedentemente commessi siano indicativi di una sua maggiore colpevolezza e di una sua maggiore pericolosità (sentenza n. 120 del 2017, punto 2 del Considerato in diritto e precedenti ivi richiamati; nello stesso senso, ordinanza n. 145 del 2018; nella giurisprudenza di legittimità, Corte di cassazione, sezioni unite penali, sentenza 24 febbraio 2011, n. 20798).

La disciplina esistente, dunque, implica fisiologicamente la possibilità di un trattamento sanzionatorio del condannato meno severo di quello che deriverebbe dall'applicazione di circostanze aggravanti ritenute sussistenti dal giudice, ma non contestate - consapevolmente, o anche per mera disattenzione - dal pubblico ministero; e, correlativamente, la possibilità di identici trattamenti sanzionatori per imputati di fatti di reato analoghi, alcuni dei quali però connotati dalla presenza di una o più circostanze aggravanti, anche in questo caso rilevate dal giudice, ma non contestate dal pubblico ministero.

La Corte rammenta che queste possibili alterazioni della logica del principio di eguaglianza nella commisurazione della pena sono, però, l'altrettanto fisiologica conseguenza della regola della necessaria correlazione tra accusa e sentenza, saldamente radicata nel sistema del codice di procedura penale. Come da tempo la Corte ha evidenziato, tale regola di sistema è, anzitutto, funzionale al corretto svolgersi del contraddittorio, e a garantire così la pienezza del diritto di difesa dell'imputato.

In secondo luogo, essa tutela la stessa posizione del pubblico ministero, che l'ordinamento vigente - imperniato sul principio accusatorio - individua come esclusivo titolare dell'azione penale. Infine, la regola assicura la posizione di terzietà e imparzialità del giudice rispetto alle opposte allegazioni delle parti: posizione che è pur essa inscindibilmente legata alla logica del principio accusatorio.

Inoltre, la disposizione di cui all'art. 521, comma 2, cod. proc. pen. censurata è, in effetti, essa stessa espressione di questa regola, precludendo al giudice di condannare l'imputato per il fatto che risulti dal compendio delle prove, ma sia «diverso» da quello descritto nell'imputazione.

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