Responsabilità ex D. Lgs. 231/01: il concetto di "apicalità di fatto" che rende punibile l’ente consapevole di un pregresso atto illecito a proprio vantaggio
30-01-2024
La vicenda sottoposta all'esame dei Giudici di Piazza Cavour riguarda l'accertamento di responsabilità di una società per accesso abusivo ai sistemi informatici (art. 24-bis del Decreto), commesso da soggetti che in seguito sarebbero divenuti parte della compagine societaria.
Con la sentenza n. 3211/2024, i giudici di legittimità della V Sezione Penale hanno evidenziato che la responsabilità della società ricorrente è correlata a condotte poste in essere dagli imputati prima che entrassero a far parte della compagine sociale, ragione per la quale sarebbe stato necessario un effettivo accertamento sulla possibilità di considerare gli stessi “persone che esercitano, anche di fatto, la gestione e il controllo dell’ente”, in realtà mancante nel caso di specie.
Da ciò l'annullamento con rinvio della sentenza impugnata ma, tuttavia, con indicazione di importanti principi di diritto per il giudice del rinvio.
La Cassazione infatti ammette la rilevanza del concetto di “apicalità di fatto”, mediante una lettura estensiva del riferimento alle “funzioni” di cui all’art. 2639 c.c. e dalla stessa formulazione letterale dell’art. 5, comma 1, lett. a), del D. Lgs. 231/01 (locuzione “gestione e controllo”) anche avuto riguardo ad una situazione di dominio esercitato sulla societas, sul modello dell’art. 2359 c.c., con direzione dall’esterno della politica aziendale.
I giudici di legittimità affermano che il richiamato art. 5 debba essere riferito in via esclusiva alla nozione di controllo della società delineata dall’art. 2359 c.c. e non ricomprendere altresì un’attività assimilabile a quella dei sindaci o degli altri soggetti deputati a svolgere funzioni di vigilanza.
Secondo gli Ermellini una siffatta estensione dell’ambito della norma sarebbe più fedele al dato letterale e maggiormente coerente con le finalità sottese all’introduzione nell’ordinamento della responsabilità amministrativa degli enti.
Puntualizza la Suprema Corte, su altro e concorrente profilo, che il legislatore, utilizzando la congiunzione “e”, richiede che almeno una di queste funzioni sia esercitata in via di mero fatto da parte del soggetto che ha commesso il reato all’interno della compagine sociale, sicché la società può, ad esempio, essere chiamata a rispondere anche per reati commessi da componenti del collegio sindacale che in concreto svolgano anche il ruolo di amministratori di fatto, sempreché sussistano tutti gli indici disvelatori della qualifica ex
art. 2639 c.c.
La responsabilità dell’ente, accertata sulla base dei principi appena esposti, peraltro, non può essere esclusa ex art. 6, D. Lgs. 231/2001, giacché se la società è gestita e controllata in modo occulto, ciò significa che non si è dotata di assetti organizzativi adeguati per la prevenzione dei reati.
Merita osservare, altresì, che la pronuncia in esame ha confermato quell’orientamento costante in giurisprudenza secondo il quale nel procedimento instaurato per l’accertamento della responsabilità da reato dell’ente non è ammissibile la costituzione di parte civile, atteso che manca qualsiasi riferimento a tale istituto nel Decreto, ciò che rappresenterebbe non una lacuna involontaria, bensì una scelta consapevole del legislatore.
L’interpretazione accolta dalla Corte di Cassazione appare in contrasto non solo con quanto affermato da una parte della dottrina, ma persino con le indicazioni che lo stesso legislatore aveva fornito in sede di entrata in vigore del D. Lgs. 231/2001 così ampliando in modo assai opinabile lo spazio di responsabilità dell’ente.
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